COME UN'EPIFANIA

di Paolo Repetto
Infiniti sono i modi d'indagare la realtà, innumerevoli i percorsi che conducono alla visione delle cose, molteplici i colori e le forme che l'occhio della mente riproduce. A partire dalla seconda metà del 1500, alcuni grandi pittori, oltre la perfetta riproduzione del reale, scoprirono la materia ed il fascino del pigmento puro: la pennellata svincolata dalla semplice imitazione delle cose che diviene grumo, segno, gesto, simbolo. Su questa linea, quanti possenti artigiani del pennello, quanti pittori, fino all'esplosione dell'arte informale, hanno approfondito il gusto della materia, scavando negli impasti della tela come poderosi minatori delle forme e della luce. A questa linea organica, vibrante, viscerale - in cui l'impeto del corpo è  più forte della visione della mente - si è sempre contrapposta una tendenza parallela e opposta: quella di una pittura che è guidata più dalla ragione che dal cuore, maggiormente dalla razionalità che dall’istinto, più dall'intelletto che dall'emozione.      I dipinti e i disegni di Salvo Caruso, senza dubbio, appartengono a quest'ultima linea. Nonostante egli rappresenti volti ben definiti, pur dipingendo paesaggi inconfondibilmente siciliani - in cui una tenue luce prelude o ricorda un calore lancinante -  nonostante egli osservi meticolosamente le linee regolari o sinuose di solenni fregi architettonici, tutto in lui è trasfigurato dal filtro calibrato della mente. Il lievito della luce, nei suoi dipinti, domina il peso delle forme, senza farle esplodere nel vortice dei colori. La sua mano è sempre guidata da un lucido intelletto - sposato ad una forte tensione metafisica. Il suo gesto è fermo, trasparente, compassato. Il suo pigmento, levigato su un'imprimitura ad olio elegantemente rifinita con grafite a pastello, fino ad ottenere velature d'autentico  cristallo, evita sempre i grumi della materia. Il giallo non scatena i suoi impeti solari; il rosso appare molto raramente e, quando appare, il suo furore è diluito in un alone di umiltà; l'azzurro del cielo è sempre trasfigurato da un'aura di grigio, che ne tempera i modi più squillanti e acuti; il verde, come un immenso mantello, riposa in larghe campate in cui l'accordo della penombra si sposa ai riflessi dell'aurora; il nero, con le sue vigorose mani, scava le sue grandi forme plasmando gli alberi in una compatta macchia notturna; il viola, come un largo uccello invisibile, depone i suoi riflessi smaltati nei punti più nascosti e remoti; l'ocra appare come una misteriosa orma del piede di Ermes; il rosa, come un Apollo in fuga, fa cadere le sue strisce dorate che si intrecciano alle lontane geometrie dei campi. Ogni cosa rappresentata dalla mano di Caruso, supera il dato semplicemente naturalistico, trasformandosi in qualcosa di mentale. Anche la sua visione dei fregi architettonici o dei volti disegnati, hanno sempre una dimensione ambivalente, sono presenze affettuose, amichevoli, buone, che insinuano un'atmosfera profonda ed inquietante. I paesaggi, sempre colti in una luce serale o mattinale, mai brillante, diventano luoghi insieme consueti e magici, familiari ed estranei. Quegli alberi, dominati dai profondi riverberi del nero, non sono più semplicemente alberi, ma ci appaiono come misteriose forme rotonde, come immensi cespugli, come sfingi, presenze di un mondo che ci appartiene, ci è vicino, ma, insieme, è a noi lontanissimo, remoto, alieno. Quelle campagne sono innalzate, sono sospese in una visione che modula gli accordi della luce in un contrappunto di timbri aereo e terrestre, domestico e lunare. Allo stesso modo, negli stessi paesaggi, il piano superiore del cielo e quello inferiore dei campi - a volte appena decifrati in una sottile striscia biondo-ocra - rivelano la loro presenza come semplici figure geometriche, come superfici anch'esse piacevoli ed inquietanti, ovvie ed enigmatiche. Ispirandosi a queste tre forme dominanti, nella loro successione prospettica: i campi, gli alberi, il cielo, Caruso gioca ad una loro identificazione che è allo stesso tempo fisica e metafisica, reale e irreale, naturalistica e geometrica. Non a caso egli sceglie di rappresentare questi luoghi non allo zenit della luce, non nella violenza del mezzogiorno, quando il furore del sole fa lievitare le forme in una sinfonia abbagliante; ma, al contrario, per le sue "notturne" riflessioni, Caruso coglie sempre le ore più misteriose: le prime luci dell'alba o le ultime del giorno, il dischiudersi delle pigre palpebre del mattino o l'avvicinarsi dei lenti passi della sera – quando gli spettri di una immensa colata di miele metafisico  muovono verso un inizio o un meritato riposo. Epifanie, presenze, momenti in cui la genesi dei colori modella o disfa le forme, istanti immortalati in cui il dio della luce crea o smonta il giocattolo del mondo. Presagi, in cui gli arcani dell’esistenza rivelano il loro respiro. Quelle forme ci sono, appaiono, esistono, ma le delicatissime visioni di Caruso ci fanno comprendere che quel miracolo, quelle "scenografie" allestite da un dio spietato e dolcissimo, potrebbero scomparire con la stessa enigmaticità con la quale sono apparse, con lo stesso mistero attraverso il quale noi stessi - fragilissime creature del mondo - percepiamo l'essere  e il nulla,  nasciamo e moriamo.       Poche regioni d'Italia, come la Sicilia oggi, possiedono un numero di pittori con tanto talento. Pochi luoghi nel mondo hanno il potere di rivelare e moltiplicare tanta luce. Questo antichissimo triangolo di forme, soprattutto nella sua parte Sud orientale, ha il dono di generare un numero sorprendente di coscienze, che con vigore e ostinazione, con parole o colori, continuano ad indagare il mistero dell'esistenza. Inutile e superfluo fare dei nomi; ma non superfluo né inutile indicare nel giovane Salvo Caruso una presenza ormai consolidatasi in qualcosa di più di una semplice promessa. Certo, un generoso tempo in un preciso luogo si profila sempre con  affinità e similitudini che non possono non indicarsi in scuole o tendenze, e quanti casi la storia ricorda. In questo senso, l'alveo in cui sta crescendo Salvo Caruso è solido e vitale. Ma come si svilupperà il suo felice talento? I suoi raffinati disegni diventeranno sempre più realistici o sempre più sospesi, ancora più cristallini o sempre meno fedeli? Come si profileranno i suoi nuovi scorci architettonici, saranno sempre così lineari e tonali o si evolveranno in qualcosa di meno geometrico e più cromatico? Cosa scorgeremo tra i grigi dorati, i gialli velati, i neri vibranti dei suoi nuovi paesaggi? Le orme di Ermes moltiplicheranno gli strani geroglifici della loro apparizione? I segni segreti di Apollo continueranno a tessere filamenti di seta e argento, viola e oro? Come un’epifania, i quadri di Caruso hanno saputo e sapranno rivelare il profondo mistero del mondo.